Lo smartphone nella tasca dei pantaloni conta quanti passi facciamo ogni giorno, mentre lo smartwatch che portiamo al polso misura la frequenza cardiaca, la pressione sanguigna e il ritmo del sonno. È possibile anche monitorare il ciclo mestruale, annotare le medicine assunte e i relativi dosaggi, tenere un diario delle proprie abitudini alimentari.
Sono tutte tessere di un puzzle da cui si ricava un'immagine più ampia, che consente di ricostruire lo stile di vita e i comportamenti, nonché i rischi per la salute che potrebbero derivarne. Ciò rappresenta una promessa della digitalizzazione o piuttosto un pericolo per la società? L'enorme quantità di dati digitali può essere utilizzata in modi diversi a seconda di chi ha accesso a tali dati. Lo psicologo sociale Jakub Samochowiec dell'Istituto Gottlieb Duttweiler (GDI) ha affrontato queste problematiche insieme a un gruppo di esperti. Per definire l'ambito di discussione, gli autori hanno formulato quattro scenari, «che non si avvereranno mai così come vengono presentati» precisa Samochowiec. Si tratta piuttosto di estremizzazioni selezionate con l'esplicito intento di aprire uno spazio di discussione il più ampio possibile.
I quattro scenari del GDI
- Big Government
Lo Stato raccoglie direttamente i dati per ottimizzare la salute della popolazione. Si ricompensano i comportamenti virtuosi e si puniscono quelli malsani. Chi non adotta abitudini salutare viene praticamente costretto a farlo. - Big Business
L'assistenza sanitaria segue le regole del libero mercato. Più il soggetto trasmette dati che indicano un buono stato di salute, meno costoso diventa il premio assicurativo. - Big Self
La raccolta dei dati non è centralizzata, ma è il singolo individuo a effettuarla, al fine di ricevere un feedback sui propri comportamenti e poter così adottare un comportamento sano. - Big Community
Tutti comunicano volontariamente i propri dati per rendere un servizio alla società. Questo modello non attua discriminazioni perché considera la diversità – in cui rientrano anche coloro che seguono uno stile di vita malsano – un'occasione di arricchimento del pool di dati.
Jakub Samochowiec, leggendo i quattro scenari abbozzati, sembra già di udire le proteste…
Perché sono descritti in termini estremi. E ogni estremizzazione ha qualcosa di totalitario nella sua peculiarità. Cerchiamo di esplorare questi scenari estremi per aprire uno spazio di discussione il più ampio possibile.
Il fatto che questi esempi ispirino un po' di timore funge da stimolo per la discussione?
È una domanda che ci siamo posti anche noi. Si tratta di un rischio calcolato: le estremizzazioni formulate dimostrano infatti anche qualcosa d'altro, ossia che lo sviluppo tecnologico non rappresenta semplicemente una mancanza di alternative. La domanda da porsi è, piuttosto, come noi, in quanto società, intendiamo gestire e sfruttare questi dati.
Prendiamo il modello Big Government, in cui la sovranità dei dati è di competenza dello Stato. Uno scenario che richiama molto alla situazione attuale...
…ma che è da sempre oggetto di dibattito. Cos'è meglio: una presenza dello Stato più discreta o più forte? Si tende sempre a oscillare fra le due opzioni. Proprio in questo momento la pandemia ci sta dimostrando che uno Stato forte può essere un vantaggio quando bisogna reagire rapidamente.
Ma più la pandemia si protrae, più lo Stato forte viene messo in discussione.
È una prospettiva tipicamente svizzera. In alcuni dei Paesi che hanno registrato un numero minore di morti lo Stato esercita un forte controllo. Tuttavia, credo anche che il modello Big Government mostri ben presto i propri limiti. Lo Stato non potrebbe gestire la nostra vita fin nel minimo dettaglio, nemmeno se lo volesse. Ad aggravare le cose vi è il fatto che uno Stato può perdere rapidamente la fiducia dei cittadini.
Può fare un esempio?
All'inizio della pandemia si diceva che le mascherine servivano a poco. Come mai? Semplicemente perché non ce n'erano a sufficienza. Quando poi è stato introdotto l'obbligo di mascherina, la credibilità dello Stato ne ha ovviamente risentito.
La pandemia ci sta dimostrando che uno Stato forte può essere un vantaggio.
Jakub Samochowiec studioso di tendenze al GDI
Che cosa ci ha insegnato la pandemia riguardo alla digitalizzazione?
Trovo interessante l'esempio dell'home office: ha dimostrato che nel lavoro è necessario meno controllo di quanto si credesse. Il lavoro da casa funziona egregiamente senza che si debba ricorrere a chissà quali strumenti tecnologici di controllo. Forse la pandemia ha messo in dubbio alcune opinioni comunemente accettate.
Questo lascia presumere che le persone si assumono le proprie responsabilità e agiscono in modo solidale. Ma è proprio così? Ad esempio, lo smartwatch non ci rende meno solidali?
Ammetto che la pandemia sembra mettere continuamente in discussione il concetto di solidarietà. Si è invocato a gran voce l'obbligo vaccinale e le campagne d'informazione che si appellano all'autoresponsabilità sono efficaci solo fino a un certo punto. Prendiamo come esempio il divieto di fumare: gran parte della gente è contenta che al ristorante sia semplicemente vietato, senza che sia necessario fare appello alla responsabilità individuale.
Quindi nemmeno Big Self rappresenta un'opzione realistica?
Nell'emergenza di una pandemia forse è troppo tardi per appellarsi alla responsabilità individuale, a meno che questa non sia già ben radicata. La capacità o la predisposizione di una società a comportarsi in modo responsabile non si sviluppa dall'oggi al domani, ma piuttosto sul lungo termine.
Quali sono gli ostacoli da superare?
Pensare alla datificazione della società può essere inquietante: abbiamo paura di perdere la nostra autonomia o di cedere il controllo ai giganti della tecnologia (Big Business) o allo Stato (Big Government). Invece, è certamente possibile utilizzare i dati in modo proficuo, senza per questo dover cedere il controllo.
Quali sono quindi i presupposti per una gestione assennata dei dati sanitari?
Occorrono conoscenze: sulla tecnologia, ma anche sulle possibili modalità di gestione della tecnologia. Solo così può nascere la fiducia. Non fiducia nella tecnologia, ma nel modo in cui vengono gestiti i nostri dati sanitari. E poi ci vuole fiducia nel prossimo: come società, dobbiamo poter contare sul fatto che le persone si comportino in modo ragionevole e solidale anche senza prescrizioni (Big Government) o incentivi economici (Big Business).
E come si fa a motivare una società a condividere i dati?
Incoraggiando i suoi membri a condividere volontariamente i propri dati con gli altri. Questa condivisione può essere vista anche come una nuova forma di solidarietà.
Cosa significa questo, in concreto, per ciascuno di noi?
Significa che dobbiamo riflettere sull'utilizzo dei nostri dati sanitari ed essere più consapevoli di cosa condividiamo e con chi, quando registriamo sullo smartwatch la nostra sessione di jogging. Ma dobbiamo anche iniziare a considerarci parte di un sistema, per potervi partecipare e trarne vantaggio. A tale scopo è fondamentale capire che la quantità, la varietà e la qualità dei dati sono decisive per poterli sfruttare al meglio.
Ma non è proprio la quantità di dati a costituire un grosso rischio?
La mole di dati è una grossa opportunità, la concentrazione del potere un grosso rischio. Il messaggio chiave dello studio è: il controllo e la discriminazione delle persone sulla base dei dati non rappresentano uno scenario futuro inevitabile. In Svizzera, ad esempio, i premi delle casse malati non dipendono dai comportamenti o dallo stato di salute dell'individuo. Questo principio si applica malgrado o forse addirittura grazie ai dati disponibili.
Non stiamo già modificando il nostro comportamento proprio perché raccogliamo dati?
È sicuramente così, nel bene e nel male. Il controllo esagerato è controproducente: si finisce per limitarsi a seguire le regole senza però agire in modo ragionevole. Sappiamo che l'interdizione ha un suo costo, in termini di denaro e di fiducia. Inoltre, vi è il pericolo di fornire stimoli sbagliati.
Cosa intende?
Posso farle un esempio personale. Per recarmi al GDI, vado in bici da Zurigo a Rüschlikon. Un giorno ho iniziato a registrare il percorso con un'app. Impiegavo sempre poco più di mezz'ora. Per riuscire a stare sotto i 30 minuti, ossia per ottimizzare un valore numerico, ho incominciato a condurre la bici in modo sempre più spericolato. Quando me ne sono accorto, ho disattivato l'app e con essa anche lo stimolo sbagliato.
Il ricercatore
Lo psicologo sociale Jakub Samochowiec lavora come ricercatore senior presso l'Istituto Gottlieb Duttweiler (GDI), dove studia i cambiamenti sociali, economici e tecnologici. È co-autore dello studio «Entsolidarisiert die Smartwatch? Szenarien für ein datafiziertes Gesundheitswesen» (Lo smartwatch rende meno solidali? Scenari per un sistema sanitario basato sui dati), redatto dal GDI su incarico della Fondazione Sanitas Assicurazione Malattia.
Illustrazioni: Nils Kasiske
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